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Dissociazione tra fantasia e realtà: lo strano delitto del Canaro

«Volevo far rassomigliare la sua faccia a quella di un cane e così gli ho anche tagliato le orecchie come facevo ai dobermann. Sembrava uno zombie. Non moriva mai. Alla fine, esasperato, gli ho aperto la bocca con una chiave inglese, rompendogli i denti, e l’ho soffocato mettendogli dentro tutto quello che gli avevo amputato. Poi l’ho portato tra i rifiuti, dove si meritava, e gli ho dato fuoco»


Pietro De Negri, soprannominato “Il Canaro” per via dell’attività di toelettatore da lui svolta nella zona della Magliana Nuova a Roma, si rende colpevole di un omicidio il 18 febbraio 1988 ai danni dell’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci. Ciò che suscita interesse è la discrepanza esistente tra la dinamica di tortura e omicidio riportata dall’assassino, il quale mai ha negato di essere coinvolto nella vicenda, e quanto emerso dopo un’attenta analisi anatomopatologica svolta sul cadavere della vittima e la relativa ricostruzione dei fatti.

Il movente

Tra il De Negri e il Ricci non corre buon sangue: per una rapina messa a punto da entrambi nel 1984, solo De Negri viene arrestato; il compagno Ricci fa sparire tutto il bottino e muove minacce all’uomo, verso cui agisce anche prepotenze che in alcuni casi assumono la forma di percosse e maltrattamenti fisici.

Vessato dall’ex-compagno, De Negri decide di farsi giustizia: inventando la scusa di voler rapinare uno spacciatore di cocaina presente nel proprio negozio, De Negri attira Ricci presso il locale e lo uccide. Il corpo di Giancarlo Ricci viene rinvenuto il giorno dopo da un uomo che portava il proprio cavallo al pascolo. Se dapprima si pensa a un regolamento di conti nell’ambito del traffico di stupefacenti, dopo aver analizzato la testimonianza di un amico della vittima (che lo aveva accompagnato al negozio, e che poi era stato allontanato da De Negri con un pretesto), De Negri viene arrestato e confessa senza alcun pentimento.

Le due versioni dell’omicidio

Interrogato rispetto alla dinamica dell’omicidio, De Negri riferisce di aver convinto Ricci a nascondersi dentro una gabbia per cani per realizzare il piano che aveva in mente e lì, in realtà, lo rinchiude.

Siamo intorno alle ore 15.00: l’uomo racconta che, in preda agli effetti dello stupefacente che gli scorre nel sangue, sevizia crudelmente l’amico per sette ore: dapprima incendia il suo volto con della benzina e lo stordisce con una bastonata; poi alza il volume dello stereo al massimo per non far udire le urla di dolore e, estratto l’uomo dalla gabbia, lo inchioda al pavimento, gli amputa i pollici e gli indici di entrambe le mani utilizzando delle tronchesi. Per prolungare l’agonia del malcapitato e non causargli una morte per dissanguamento, De Negri cauterizza le ferite inferte con della benzina. A questo punto, siamo intorno alle 16.00, racconta di aver fatto una pausa per andare a riprendere la figlia a scuola e accompagnarla a casa della madre. Poi la tortura prosegue: rientra al negozio e mutila la vittima di naso, orecchie, lingua e genitali; utilizza una tenaglia per introdurre tali parti amputate nella bocca dell’uomo, provocandone la morte per asfissia. La morte della vittima non placa il suo desiderio sadico: si accanisce infatti sul cadavere, gli rompe i denti a martellate, gli infila le dita recise nell’ano e negli occhi, scoperchia la scatola cranica per lavargli il cervello con dello shampoo per cani. Intorno alle 22 si sbarazza del corpo e lo incendia, abbandonandolo presso una discarica.

Ipotesi sulla psicologia del Canaro

Il verbale di polizia sul ritrovamento del corpo di Ricci riporta “dozzine di inquietanti mutilazioni” e “un’evidente apertura del cranio, lunga circa 10 centimetri, tanto larga da scorgere all’interno la materia cerebrale coperta da una strana schiuma”. Lo stesso medico legale riferì che era “certamente opera di specialisti, gente che sa come si usa un coltello o un rasoio”.

La ricostruzione dei fatti del De Negri viene però smentita dall’autopsia: le mutilazioni, infatti, appaiono essere state praticate sul cadavere, e quindi post-mortem. Anche lo “shampoo al cervello” si rivela una pura ricostruzione fantasiosa e sappiamo anche che l’uomo non si recò nemmeno a prendere la figlia a scuola.

Alla luce di ciò, come collocarsi quindi rispetto al racconto dell’assassino? Dando per certa la versione degli esperti, possiamo solo ipotizzare un omicidio dalle dinamiche forse meno cruente, inserito in un contesto di criminalità che giustificherebbe la padronanza del metodo, ma certamente non possiamo risalire al reale svolgimento dei fatti.

Ciò che stupisce, è che il De negri confessò raccontando l’omicidio “come se leggesse un copione, esaltandosi”, qualcuno addirittura disse che “sembrava di stare in un teatro di prosa”.

L’omicidio “fantasticato” – estremizzato, raccontato come se fosse un’opera d’arte, vissuto dal soggetto come evento del tutto dipendente dal proprio controllo ed effettuato a mente lucida e a sangue freddo (idealmente, infatti, avrebbe anche interrotto le torture per recarsi candidamente a prendere la figlia a scuola) – non corrisponde alla realtà dei fatti e potrebbe essere associato sia a un forte senso di megalomania, sia a una personalità di stampo narcisistico in cui le componenti fantastiche di onnipotenza, fama e successo, insieme alla componente sadica, sono predominanti. Non possiamo però escludere che tale delitto, comunque premeditato, sia stato realizzato in preda all’ottundimento di coscienza dovuto all’importante abuso di sostanze che ne ha offuscato la stessa ricostruzione, motivo per cui il De Negri potrebbe avere messo insieme frammenti di quanto ricordato (effettivamente le mutilazioni e l’accanimento sul corpo della vittima si sono verificate) per creare uno scenario alimentato dalla forte carica emotiva derivante dalle angherie precedentemente subite dall’uomo e dal proprio irrefrenabile desiderio di vendetta.


Fonti:

  • ilpost.it
  • DSM 5
  • Wikipedia.it
mm

Valentina Zandonà

Psicologa iscritta all’Albo degli Psicologi della Lombardia con N°17430. Ha maturato esperienza nell’ambito della diagnosi di demenze, nella valutazione e riabilitazione neuropsicologica di pazienti con grave cerebrolesione acquisita e ad oggi lavora in ambito clinico con pazienti psichiatrici in età adulta, con doppia diagnosi e autori di reato.

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