Esiste un reale rapporto tra malattie mentali e criminalità?
Il rapporto tra le malattie mentali e criminalità ha tracciato le tappe fondamentali che hanno partecipato alla nascita della psichiatria forense, la quale si occupa di questioni che sorgono nell’interfaccia tra psichiatria e legge e il quale obiettivo principale è quello di evidenziare lo stato di salute mentale del soggetto che commette il crimine, attraverso una perizia psichiatrica.
Malattie mentali e criminalità
Le malattie mentali e la criminalità sono dei fenomeni molto diffusi e ubiquitari, tanto da costituire gravi problemi sociali e di rilievo internazionale. A volte, malattia mentale e criminalità sono presenti contemporaneamente e può perfino capitare che l’una sia causa diretta dell’altra. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si può sottolineare che sono fenomeni del tutto indipendenti l’uno dall’altro ed è bene dunque ricordare che la possibilità di esprimere violenza, commettendo reati e abusi di ogni genere, riguarda tanto le persone mentalmente sane, quanto quelle affette da disturbi di natura psichiatrica (Desjarlais, Eisenberg, Good, Kleinmann, 1995).
Come evidenzia una recente rivista sugli aspetti nosologici della psicopatologia (Widiger, Sankis, 2000), i comportamenti aggressivi e gli atti violenti sono di importanza sostanziale sia in ambito sociale che clinico. È inoltre noto ai professionisti che operano nel campo della salute mentale che la malattia mentale grave è associata a caratteristiche psicopatologiche, quali disregolazione, rabbia, aggressività, disordini comportamentali che possono assumere connotati di comportamenti violenti più o meno gravi. Molto spesso accade che un soggetto, il quale sta avendo un episodio psicotico acuto, o un episodio di eccitamento maniacale, diventi violento per paura di essere minacciato o danneggiato da qualcuno o perché incapace di frenare e controllare un impulso irresistibile o un aumento di aggressività ed ira (Widiger, Sankis, 2000).
Più di tutte le forme di psicopatologia, l’abuso di sostanze (in particolare cocaina, crack, allucinogeni) e soprattutto l’alcol, in comorbilità con malattie mentali, sono direttamente responsabili di comportamenti violenti e criminosi. Lo stereotipo di pericolosità associata con la malattia mentale sembra essere fortemente aumentato negli ultimi 50 anni. (Nunnally, 1961; Phelan, Link, Pescosolido, 1997)
Il prodotto di conflitti irrisolti
Tutti gli esseri umani iniziano una vita come creature caratterizzate da istinti, che sono poi destinati a modificare per un eventuale conformazione con un gruppo ed una sicurezza reciproca. L’educazione, dunque, è essenzialmente un condizionamento imposto grazie al quale il bambino, si presuppone, acquisisca e si costruisca un automatico modello di controllo degli istinti primari.
I fenomeni di criminalità e malattia mentale, si pensa derivino da un’incapacità di mantenere un rapporto stabile con l’ambiente sociale e possono entrambi essere considerati come il prodotto di conflitti irrisolti: la criminalità rappresenta una ribellione con azione distruttiva diretta all’esterno; la malattia mentale, al contrario, è una ribellione con azione distruttiva assorbita all’interno.
Sembrerebbe che molti criminali siano costretti a ripetere atti illeciti, al fine di preservare la propria sanità mentale e molte persone rispettose della legge, diventano “pazze” per evitare un reato. Sebbene si possa intendere che da un punto di vista sociale, la malattia mentale risparmi il gruppo a discapito dell’individuo stesso, una persona affetta da un disturbo mentale che commette un crimine è sottoposta ad un doppio errore di adattamento (Philip Q. Roche, 1955).
La sconfitta nel controllo delle interazioni sociali è caratterizzata da sintomi che indicano sforzi per ristabilire un contatto con la realtà, i quali possono essere espressi in simboli verbali, schemi motori e linguaggio del corpo. Già intorno alla metà del Novecento dunque, era giudizio comune che malattia mentale e criminalità mantenessero una certa parentela in termini di regressione e ritiro dalla realtà, sostituendo essa con la fantasia. In entrambi i casi, la rottura con la realtà trascende le norme del gruppo, è resistente a correzioni e tende a diventare un “modus vivendi” (Philip, Q. Roche, 1955).
Studi sulla correlazione tra malattia mentale e criminalità
Nei successivi anni, Sessanta-Settanta, sono stati compiuti numerosi studi per giungere a conferme circa la forte correlazione esistente tra malattia mentale e criminalità.
Nel 1965, Rappeport e Lassen hanno condotto uno studio annotando gli arresti, avvenuti nel periodo dal 1947 al 1957, per tutti i soggetti maschi con più di 16 anni, ospedalizzati e che poi erano stati congedati dagli ospedali psichiatrici di Maryland, negli Stati Uniti. Lo studio ha rivelato che gli arresti per rapine avevano la stessa frequenza negli ex pazienti e nella popolazione generale, mentre gli arresti per reati gravi, quali omicidio, omicidio colposo, stupro ecc., erano di più elevata frequenza negli ex pazienti rispetto alla popolazione generale.
Nel 1967 Giovannoni e Gurel hanno condotto uno studio su 1142 pazienti psicotici seguiti per quattro anni e poi anch’essi dimessi dall’ospedale e hanno rivelato che gli ex pazienti hanno significativamente più alti tassi di arresti per crimini gravi rispetto alla popolazione generale. Il 95% di questi pazienti erano affetti da Schizofrenia e la maggior parte di loro aveva abusato di alcol.
Proponendosi un maggiore rigore metodologico, Hafner e Boker (1973) condussero uno studio nella Repubblica Federale Tedesca su tutti i 533 individui affetti da malattia mentale e autori di crimini violenti tra il primo gennaio 1955 e il trentuno dicembre 1964, includendo però solamente i casi di malattia mentale grave (psicosi organiche e funzionali, tutte le forme di demenza, ritardo mentale ecc.) e presero in esame solo i comportamenti violenti che avevano avuto come esito la morte o grave ingiuria della vittima. I due autori constatarono che i soggetti del loro campione rappresentavano circa il 3% del numero totale dei criminali violenti di quel periodo.
Gli studi a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80 sono stati interpretati come indicativi, sostanzialmente, di una assenza di una forte correlazione tra malattia mentale e violenza. (Bandini, 1981; Canepa, Traverso, 1979; Gatti, Traverso, 1979; Gibbens, 1979; Monahan, Steadman, 1984; Rollins, 1972; Rubin, 1972)
Tuttavia, si può ben sottolineare quanto gli studi prima degli anni Ottanta siano di difficile comparazione perché estremamente eterogenei sia per le diagnosi, spesso nemmeno specificate nel dettaglio, che per la scarsa accuratezza metodologica riguardo la scelta dei campioni, delle misure e dell’analisi e interpretazione dei risultati.
Gli studi pubblicati in seguito, negli anni Ottanta, divennero un po’ più accurati nella metodologia e produssero risultati più omogenei. La maggior parte di essi evidenziava un rischio maggiore di commettere reati e crimini violenti da parte delle persone con disturbo mentale grave, rispetto alla popolazione generale (Daniel, Robins, Reid, Wilfley, 1988; Gottlieb, Gabrielsen, Kramp, 1987; Lindqvist, 1986; Petursson, Gudjonsson, 1981; Sosowky, 1980; Taylor, Gunn, 1984). In particolare, sono i disturbi psicotici ad essere maggiormente correlati con gravi atti violenti come l’omicidio, e ciò è emerso in due studi condotti in Inghilterra da Taylor e Gunn (1984) e in Danimarca da Gottlieb, Gabrielsen e Kramp (1987) su un consistente numero di autori d’omicidio. Il campione era composto da maschi detenuti nel carcere di Brixton, l’11% di questi erano autori di omicidio e risultarono essere affetti di Schizofrenia e, la maggior parte di coloro, sperimentarono sintomi psicotici al momento del reato (Taylor, Gunn, 1984). Lo studio condotto a Copenhagen, invece, fu eseguito su un campione di maschi e femmine, autori di omicidio per un periodo di 25 anni. I risultati dimostrarono la presenza di un disturbo psicotico nel 25% degli uomini e nel 44% delle donne, ciò equivale a dire che in presenza di un disturbo psicotico il rischio di commettere omicidi è circa sei volte maggiore tra gli uomini e sedici volte maggiore tra le donne (Gottlieb, Gabrielsen, Kramp, 1987). Gli studi condotti negli anni Ottanta mostrano in maniere chiara e univoca che alcune forme di psicopatologia, soprattutto i disturbi psicotici, e non la malattia mentale in generale, costituiscano un fattore di rischio per comportamenti violenti gravi.
Negli anni Novanta prosegue lo studio sul rapporto tra malattia mentale e criminalità e si evidenzia in maniera definitiva come fattore di rischio per la violenza non sia la malattia mentale in generale, bensì solo alcuni particolari tipi di disturbi, in particolare psicotici. Fu fatto uno studio di comunità a Baltimore, Los Angeles, che indicò una forte associazione statistica tra malattia mentale e violenza. I soggetti, affetti da schizofrenia, presentavano una probabilità 4.1 volte maggiore di commettere crimini rispetto alla popolazione generale, mentre i soggetti che abusavano di sostanze fino a 10 volte di più (Swanson, Holzer, Ganju, Jono, 1990). Altri studi di Cotè e Hodgins nel 1990, 1992, 1993, hanno confrontato la popolazione carceraria con quella generale e i detenuti presentavano una percentuale più alta di sette volte di disturbi dello spettro schizofrenico, due volte di depressione maggiore e il 63% dei pazienti affetti da schizofrenia presentava una comorbidità con il disturbo antisociale di personalità o con l’abuso di alcool o sostanze, o una diagnosi di disturbo mentale maggiore e un disturbo antisociale di personalità in comorbidità, con significative più condanne per crimini violenti. In uno studio condotto a Istanbul, in cui sono stati esaminati 85 casi di figlicidio, commessi tra il 1995 e il 2000, il 61% degli autori del crimine aveva un disturbo mentale, specialmente con diagnosi di schizofrenia, in alcuni casi sotto il comando di una voce che indicava al genitore di uccidere il figlio (Karakus e coll., 2003).
Conclusioni
Alla luce dei recenti dati è emerso chiaramente che l’incidenza di comportamenti violenti è più alta, sebbene di poco, tra i soggetti affetti da un disturbo mentale grave rispetto alla popolazione generale; è stato appurato, inoltre, che la combinazione di una grave malattia mentale e un disturbo da abuso di sostanze aumenta significativamente il rischio di un coinvolgimento, solitamente diretto, in un atto violento o crimine; i risultati delle indagini sociologiche sull’effetto del consumo di alcol sulla violenza, indicano, ulteriormente, che abitudini di consumo a lungo termine sono predittive di maggiore violenza (J. Arboleda, Florez, 1998); la schizofrenia è l’unica forma di psicopatologia per cui è legittimo sostenere una evidente maggior incidenza di comportamenti violenti (Swanson, 1980, 1990; O. Greco, R. Maniglio, 2007).
Da quanto emerso nei numerosi studi condotti dai ricercatori, si può ben ipotizzare, in un quadro di sanità pubblica, i fattori di rischio per la violenza che possono essere classificati in quattro categorie:
1) Fattori disposizionali/ personali, ad esempio, l’età, il sesso, l’etnia, il controllo della rabbia, l’impulsività;
2) Sviluppo/ fatti storici, ad esempio, la storia di abusi di un bambino, storia di violenza, ricovero in ospedale per disturbi mentali;
3) Fattori di contesto, ad esempio, stress ambientali, supporto sociale, accessibilità alle armi;
4) Fattori clinici, ad esempio, deliri, allucinazioni, abuso di sostanze.
Questa trattazione si è posta l’obiettivo di ricercare e ripercorrere gli studi inerenti l’associazione posta in essere tra malattia mentale e criminalità, rivelando la tesi che esista una correlazione positiva tra la criminalità e disturbi mentali gravi di natura psicotica e non tra criminalità e disturbi mentali in generale.
Tuttavia, si è raggiunta una correlazione certa ed evidente, esclusivamente tra criminalità e pazienti con diagnosi di schizofrenia. È emersa, ulteriormente, l’importanza di fattori disposizionali, fattori ambientali, esperienze di vita vissute quali traumi ed abusi infantili ed altri fattori come l’abuso di sostanze, nella specifica predizione di violenza, atti illegali e criminalità; tutti fattori che si è osservato appartenere ai pazienti con disturbo dissociativo dell’identità.
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